17 maggio 2020 – Sesta Domenica di Pasqua

La liturgia della parola di questa domenica ci propone tre temi: la Pentecoste dei Samaritani, l’essere pronti sempre a rispondere e l’altro Paraclito che il Padre ci darà.

 

Prima  lettura (At., 8, 5-8. 14-17).

La lettura degli Atti, in queste domeniche dopo Pasqua, ci fa partecipi della vita della comunità di Gerusalemme e dei grandi eventi che ivi si compiono dopo la risurrezione del Signore, ma ci fa anche uscire da Gerusalemme, senza mai dimenticare la Chiesa-madre. Alla Pentecoste di Gerusalemme segue la “Pentecoste” dei Samaritani.

 

La Samaria accoglie la parola di Dio (8, 14)

Leggiamo oggi che Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo (8, 5).

Il libro degli Atti, all’inizio del capitolo 8 che leggiamo oggi, racconta che dopo la morte di Stefano era scoppiata una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme (8, 1) e per questo tutti, ad eccezione degli Apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria (8, 1).

Il Filippo di cui qui si parla non è l’apostolo, rimasto a Gerusalemme, ma uno dei “Sette” di cui ci ha parlato la prima lettura di domenica scorsa; sappiamo anche che il suo soprannome era “l’evangelista” (At., 21, 8), proprio per la sua attività missionaria.

Lasciata Gerusalemme a causa della persecuzione, decide di recarsi in una città della Samaria, forse la capitale, allora chiamata Sebaste Augusta.

Le folle, come già a Gerusalemme, prestano attenzione alle parole di Filippo (8, 6). L’ascolto attento, l’unanimità, le guarigioni, l’uscita di spiriti impuri sono il segno che l’azione di Gesù continua ed i Samaritani accolgono il vangelo predicato da Filippo.

Gli Apostoli a Gerusalemme vengono informati che la Samaria aveva accolto la parola di Dio (8, 14). A Luca interessa narrare il cammino della Parola e Filippo è il primo del quale si dice che annuncia la Parola e che predica il Cristo (8, 4-5).

Protagonista degli Atti degli Apostoli è la Parola che si è fatta carne in Gesù, Parola che continua a farsi carne negli apostoli e nei discepoli, mediante lo Spirito Santo, fino a quando la Parola, e cioè Dio stesso, sarà tutto in tutti (1Cor., 15, 28).

I Samaritani prestano attenzione alla Parola, non a Filippo (8, 6).

Le folle (8, 6) vedono i segni che Filippo compie: non lui, ma la Parola fa prodigi e segni, è lei che è viva ed efficace.

È una Parola che scaccia gli spiriti impuri (8, 7), cioè lo spirito di morte, quello spirito che l’uomo ha dentro e gli fa dire che non è capace di niente, che non vale niente, che non c’è niente da fare.

La Parola dice invece ad ogni uomo che ognuno è amato e che Gesù ha dato e trasmette la vita ad ognuno di noi.

La Parola guarisce paralitici e storpi (8, 7), cioè persone bloccate: il vero male dell’uomo è essere bloccato in se stesso, non riuscire a camminare sulla via della vita.

La Parola ascoltata e accolta libera il cuore dalle paure e rende alcuni Samaritani, e quanti in ogni tempo accolgono la Parola, capaci di camminare.

L’annuncio di Filippo ai Samaritani ci fa entrare nel processo della fede raccontato dagli Atti che inizia con l’annuncio della Parola che guarisce e libera.

Coloro che ascoltano sono attenti (8, 6) perché l’ascolto è accompagnato dalla visione dei segni e questo produce gioia: vi fu grande gioia in quella città (8, 8).

 

La Pentecoste dei Samaritani

Pietro e Giovanni sono inviati da Gerusalemme ai Samaritani: lo scopo della loro visita è la preghiera per il dono dello Spirito Santo.

Filippo aveva battezzato i Samaritani con acqua; Luca e gli scritti neotestamentari raccontano il progressivo affermarsi del battesimo cristiano rispetto a quello di Giovanni: al perdono (acqua) si aggiunge l’imposizione delle mani (fuoco / Spirito Santo) (Lc. 3, 16).

Il fatto che siano gli Apostoli, giunti da Gerusalemme, ad imporre le mani non è da intendere come affermazione di un diritto esclusivo degli Apostoli, ma piuttosto come segno dell’inserimento della comunità samaritana nella comunione dell’unica Chiesa, fondata a Gerusalemme.

Luca, nel suo vangelo, aveva già raccontato di alcuni Apostoli entrati in un villaggio di Samaritani per preparare l’ingresso di Gesù, ma essi non vollero riceverlo perché era in cammino verso Gerusalemme. Giacomo e Giovanni avevano reagito chiedendo al Maestro se voleva che scendesse un fuoco dal cielo e li consumasse (Lc., 9, 52-55): ora, nel libro degli Atti, Giovanni e Pietro trasmettono ai Samaritani lo Spirito Santo, il fuoco che Gesù ha portato nel mondo, non fuoco che annienta, ma che illumina e riscalda.

 

Seconda  lettura  (1Pt., 3, 15-18)

L’invito di Pietro qui riportato è da situare nel contesto della persecuzione, tema di particolare attualità ai tempi della predicazione di Pietro, che incoraggiava i cristiani a conservare la speranza in situazioni di particolare sofferenza.

 

Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi

Pronti sempre a rispondere a chiunque (3, 15). Il testo greco, se tradotto letteralmente, così dice: pronti sempre alla apologia [apologhìa], cioè alla difesa in tutte quelle situazioni in cui i cristiani, o per seria ricerca o per curiosità, sono interrogati sulla loro fede.

Pietro invita i cristiani a non evitare le domande per paura del “mondo”, ma li invita ad essere pronti a fornire la loro testimonianza e subito aggiunge: Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza (3, 15-16).

L’essere pronti a rispondere non deve essere un parlare arrogante, ma risposta che vuole rendere testimonianza della loro fede, che, come afferma l’autore stesso, è principalmente la speranza cristiana (1Pt., 1, 3. 13. 21). L’ “apologia” si fonderà invece sull’amicizia e sul “timore di Dio. Per questo i cristiani sono invitati a rispondere con retta coscienza (3, 16) e cioè con la loro esistenza, più che con argomentazioni.

Nel momento stesso in cui si parla male di voi (3, 16): anche se la vita del cristiano è “buona”, può provocare accuse e calunnie.

L’autore della lettera auspica che sia la buona condotta dei cristiani a far mutare atteggiamento (1Pt, 2, 12; 3, 1) a chi vuole mettere in cattiva luce coloro che seguono Cristo.

 

Meglio soffrire operando il bene che facendo il male

L’autore prende nuovamente in considerazione il fatto che i cristiani debbano soffrire nonostante le loro opere buone e afferma che questo è “meglio” piuttosto che fare il male (3, 17): ancora una volta la predicazione di Pietro propone di leggere e vivere le inevitabili sofferenze del cristiano alla luce della passione e morte di Gesù.

Le sofferenze dei cristiani sono un pegno di partecipazione alla gloria di Cristo (1Pt., 4, 13; 5, 1): Cristo sofferente è esempio per i cristiani che insieme alla comunione con lui vivono anche la solidarietà con i fratelli che soffrono (1Pt., 5, 9).

 

Vangelo (Gv., 14, 15-21)

Prima di passare da questo mondo al Padre, Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito Santo, del Paràclito (paraklètos), l’ “avvocato” che difenderà e conforterà i discepoli nella lotta che dovranno sostenere.

 

Se mi amate, osserverete i miei comandamenti

Queste parole di Gesù ci fanno comprendere che l’Ultima Cena e il suo ultimo discorso, riportato da Giovanni, si situano nell’orizzonte dell’alleanza.

La richiesta del Dio dell’alleanza al monte Sinai è di essere amato in modo esclusivo dal suo popolo (Deut., 6, 4-9); Gesù, presenza visibile di Dio tra gli uomini, durante l’Ultima Cena richiede ai suoi di essere amato, stabilendo con loro una nuova alleanza.

 

Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito

Gesù chiede al Padre un altro Paraclito, titolo che compare solo negli scritti giovannei e titolo non riservato solo allo Spirito Santo.

Nella sua prima lettera, Giovanni scrive: Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre, Gesù Cristo il giusto (1Gv, 2, 1).

Cristo stesso è il Paraclito, l’avvocato del peccatore presso il Padre: per questo, nel vangelo di quest’oggi si dice un altro Paraclito, in sostituzione cioè di Cristo, accentuando più la funzione che la persona.

Il termine Paraclito designa una funzione: colui che è “chiamato accanto” (paràkalèo, ad-vocatus). Il Paraclito è colui che assiste, che dà sostegno, che aiuta, che intercede, e, in sede giudiziale, l’avvocato o il testimone:

quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me, e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio (Gv, 15, 26-27).

E ancora:

È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi. E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio (16, 7-8).

In vista degli avvenimenti drammatici che stanno per accadere e per preparare i discepoli alla solitudine che, a sua imitazione, sperimenteranno nel tempo della persecuzione, Gesù promette ai discepoli un sostegno, una guida, un tutore, un protettore.

Finora il loro soccorso era stato Gesù stesso; ora egli se ne va, perciò i discepoli hanno bisogno di un altro soccorso e il Padre lo invia loro come il sostituto di Gesù per continuare la sua opera per mezzo di loro.

Lo Spirito soprattutto apporta ai discepoli la comprensione della Parola di Gesù e li mette in condizione di testimoniare ciò che Gesù ha detto e fatto in mezzo a loro.

 

Perché rimanga con voi per sempre (14, 16)

Poco dopo Giovanni aggiunge: Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.

I discepoli conoscono lo Spirito poiché egli rimane tra loro e sarà in loro.

Solo l’uomo che si apre allo Spirito lo conosce e lo Spirito si rende presente e contemporaneamente si fa conoscere.

Per il cristiano lo Spirito, che è la presenza di Gesù dopo la sua Ascensione, è la realtà più importante e più vera.

 

Lo Spirito della verità (14, 17)

Lo Spirito della verità è lo Spirito che fa conoscere la verità e fa vivere gli uomini in conformità con essa.

Per Giovanni la verità è la Parola che Dio ha rivelato, manifestato agli uomini; le dieci parole sono le indicazioni di vita proposte agli uomini.

La verità si manifesta da ultimo nella persona di Gesù: e il Verbo si fece carne (Gv., 1, 14).

Domenica scorsa abbiamo ascoltato Gesù dire: Io sono la verità (Gv., 14, 6).

Dio è Dio e chiunque voglia conoscerlo come Padre e desidera chiamarlo Padre, nella preghiera, non lo può fare se non con una “potenza” che viene dall’alto, dallo Spirito: Nessuno può dire Gesù è Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo (1Cor., 12, 3).

 

Non vi lascerò orfani, verrò da voi (14, 18)

Gesù allarga la prospettiva dagli Apostoli alle generazioni future: promette lo Spirito, ma anche il suo ritorno.

Il Signore promette di non lasciare orfani i discepoli di ogni tempo, rispondendo ai timori dei Dodici durante l’Ultima Cena (Gv., 13, 33. 36-37)

I discepoli sono disorientati e turbati: Gesù dice loro che dopo la sua morte, il mondo senza fede, il mondo che si fida solo delle certezze umane, non lo vedrà più, perché per esso Gesù sarà soltanto un piccolo personaggio della periferia dell’impero romano, apparterrà a un passato morto.

I discepoli invece lo vedranno vivo, con i loro occhi di carne, dopo la Risurrezione, e poi con gli occhi della fede nata dalla Risurrezione stessa.

Il vangelo di oggi si chiude con la rinnovata promessa che Gesù fa di manifestarsi ad ogni discepolo che lo ama.

Il verbo manifestarsi (emfanìzo) usato da Giovanni è lo stesso verbo utilizzato per raccontare il manifestarsi di Dio a Mosè (Es., 33, 13. 18).

Non si tratta ovviamente di una apparizione, ma di una manifestazione intima alla persona: ecco il compimento delle promesse a Mosè sul Sinai.

 

Alcune sottolineature

  1. Rimanere.

I verbi conoscere (14, 17) e rimanere (14, 17) sono al tempo presente ed indicano quindi azioni continuative, che non riguardano solo il tempo storico in cui sono accadute, ma si protraggono nel tempo e nell’eternità.

Il verbo rimanere (méno) ricorre più volte nell’Antico e nel Nuovo Testamento. In questo tempo pasquale lo incontriamo frequentemente, soprattutto riferito al rimanere di Gesù dopo la sua morte. In particolare, lo abbiamo incontrato due volte nel pomeriggio di Pasqua e nella domenica dopo Pasqua: rimani con noi, perché si fa sera (Lc., 24, 29) e subito dopo: egli entrò per rimanere con loro (Lc., 24, 29).

Ma è soprattutto l’evangelista Giovanni che più usa il verbo rimanere: non soltanto nel senso di restare, abitare, ma soprattutto per indicare il nuovo rapporto che unisce l’uomo a Dio attraverso l’immagine della inabitazione reciproca.

Si stabilisce tra il Padre, il Figlio e il cristiano una unione intima e feconda, come quella del ceppo e dei tralci della vite:

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla […]. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto (Gv., 15, 4-7).

Nella sua prima lettera Giovanni scrive:

Quanto a voi, quello che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna […]. E quanto a voi, l’unzione (chrisma) che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito. E ora, figlioli, rimanete in lui perché possiamo avere fiducia quando egli si manifesterà (1Gv., 2, 24-28).

E ancora:

Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato (1Gv., 3, 24).

Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito (1Gv., 4, 12-13).

E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui (1Gv., 4, 15).

 

  1. Gli occhi della carne e gli occhi della fede.

Gli occhi della carne e gli occhi della fede sono due tipi di visione inseparabili l’uno dall’altro: le apparizioni del Risorto che abbiamo letto e meditato nelle scorse domeniche non sono visioni di fantasmi, inconsistenti e illusorie, ma sono per il cristiano l’esperienza che Gesù, il Cristo, vive e rimane presente e questo non solo per i discepoli della prima ora, ma per i discepoli di ogni tempo, per tutti coloro che credono in lui.

I discepoli che hanno visto il Cristo vivo hanno avuto la certezza di vivere essi stessi una vita più forte della morte.

Gli occhi della fede vedono nella risurrezione di Gesù ciò che la risurrezione di Lazzaro prefigurava: la vita che il Padre dona a Gesù morto è una vita che dura eternamente.

La vita del Risorto inaugura i tempi nuovi: in questi tempi nuovi l’intensità di vita si misura dalla intensità della fede, che permette al discepolo di vedere il legame che unisce ogni discepolo al Padre attraverso Cristo.

 

  1. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama (14, 21).

Nel capitolo del vangelo di Giovanni che precede il capitolo che leggiamo oggi, Gesù dice ai suoi:

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri (Gv., 13, 34-35).

Gesù comanda l’amore, ma il suo non è il comando di un ufficiale ad un subalterno.

Se Gesù comanda l’amore, il suo comando è una parola creatrice, come quella del Padre nella creazione (Gen., 1, 2-31): se Gesù comanda l’amore, è perché vuole creare qualche cosa di nuovo con noi.

Suggerimenti

Celebrazione

Potete partecipare alla Messa celebrata dal papa, dal vescovo diocesano o da un sacerdote in altra chiesa.

Segni

Una fiamma che evochi sia la Pentecoste dei Samaritani, battezzati da Pietro e Giovanni nello Spirito Santo e nel fuoco, sia lo Spirito Santo promesso da Gesù nel vangelo.

Per la preghiera

Si possono riprendere le belle e intense citazioni di Giovanni riportate nella “sottolineatura” Rimanere.

 

Ti rendiamo grazie, Padre,

per il tuo Santo Spirito:

grazie a lui non siamo orfani,

anche se non vediamo Gesù con i nostri occhi.

 

In Gesù noi abbiamo un’immagine autentica di te

e grazie al tuo Spirito essa rimane impressa nei nostri cuori.

 

In Gesù noi abbiamo un difensore contro il male

e grazie al tuo Spirito possiamo combattere

le forze oscure che assalgono la nostra vita.

 

In Gesù riceviamo la Parola che dà vita,

e grazie al tuo Spirito questa Parola

diventa annuncio di guarigione e di gioia come per i Samaritani.

 

In Gesù noi conosciamo il tuo Figlio unigenito

e grazie al tuo Spirito possiamo diventare tuoi figli

e possiamo chiamarti Padre.

 

In Gesù l’annuncio del Regno

è accompagnato da segni

e grazie al tuo Spirito i discepoli

continuano la tua presenza e la tua opera.

In Gesù il tuo Regno è stato inaugurato

e grazie al tuo Spirito giunge a compimento.

 

Per l’approfondimento

  • Guardini, Il Signore, Milano-Brescia, 2018. La preghiera sacerdotale, pp. 493-501; Il corpo trasfigurato, pp. 540-547; Tra tempo ed eternità, pp. 549-556.