10 maggio 2020 – Quinta Domenica di Pasqua

La liturgia della parola di questa domenica ci propone tre temi: l’istituzione del servizio alle mense nella comunità di Gerusalemme, le pietre vive dell’edificio spirituale e la via che conduce al Padre.

 

Prima  lettura  (At., 6, 1-7)

Gli Atti degli Apostoli raccontano non solamente la crescita numerica e geografica delle comunità cristiane, ma anche la loro crescita nell’affrontare nuove esigenze e nuovi compiti.

 

La crescita delle comunità: nuove esigenze e nuovi compiti

Il numero dei discepoli aumentava (At., 6, 1), anzi si moltiplicava (At., 6, 7).

Luca ci informa che nella chiesa di Gerusalemme coesistevano due gruppi di cristiani: uno di lingua ebraica e uno di lingua greca.

I primi erano giudeo-cristiani che abitavano a Gerusalemme e parlavano una lingua semitica (probabilmente l’aramaico), i secondi, anch’essi israeliti, erano originari della Diaspora e parlavano il greco.

Molto probabilmente i cristiani di Gerusalemme quando si riunivano per celebrare la frazione del pane (la nostra Eucaristia), si riunivano in luoghi diversi, non per motivi di dissenso, ma per motivi linguistici.

Nella prima lettura di oggi Luca riporta che alcuni giudeo-cristiani di lingua greca si lamentavano perché nella distribuzione quotidiana venivano trascurate le loro vedove.

È necessario avere presente quanto abbiamo letto nelle domeniche precedenti circa la comunione dei beni (At., 2, 42-47) praticata dalla comunità di Gerusalemme (e non da altre comunità, si pensi ad esempio a Corinto).

I Dodici affrontano collegialmente la situazione e dopo aver convocato il gruppo dei discepoli (6, 2) propongono la soluzione: i Dodici mostrano di avere una chiara e ferma convinzione che il loro compito principale è il servizio della parola, ma sono anche ben consapevoli dell’importanza del servizio alle mense, cioè la cura dei poveri e il servizio durante il pasto fraterno dell’Eucaristia.

I Dodici chiedono alla comunità di trovare le persone adatte a questo compito: spetta alla comunità valutare con cura chi scegliere (At., 6, 3).

I Dodici indicano con precisione il numero delle persone da scegliere: sette, numero che individua un gruppo preciso all’interno della comunità come già un altro gruppo è individuato con il numero dodici.

Assistiamo, all’interno della comunità dei credenti, al formarsi di gruppi con incarichi specifici e con la ricerca di alcune qualità necessarie per adempiere gli specifici compiti: buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza (At., 6, 3).

Gli stessi Apostoli enunciano il criterio che ispira queste nuove designazioni: noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della parola (6, 4).

Per la prima volta, nel libro degli Atti, al servizio della parola viene aggiunta la preghiera: all’interno delle comunità cristiane si stanno specificando la missione e il culto come funzioni distinte, ma non separate.

Gli Atti ci danno precise informazioni sulla vita delle prime comunità cristiane sorte tra il 30 e il 60 dopo Cristo.

 

La nascita del “diaconato”

La proposta viene approvata da tutto il gruppo e Luca riporta il nome dei “Sette”, con al primo posto Stefano: tutti i nomi sono greci e per ultimo è nominato Nicola, proselito di Antiochia, cioè un pagano convertito al giudaismo e poi divenuto cristiano.

Antiochia, città della Siria, è qui menzionata per la prima volta, ma avrà nei capitoli successivi degli Atti un ruolo di grande importanza, sia per i viaggi paolini sia come sede di una importante comunità di cristiani provenienti dal paganesimo: ad Antiochia per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati cristiani (At., 11, 26).

I sette vengono presentati agli Apostoli, che, dopo aver pregato, impongono loro le mani (6, 6).

L’imposizione delle mani è il gesto rituale che verrà ripetuto per trasmettere, nelle comunità, gli incarichi e i carismi, suggeriti dallo Spirito, ad essi collegati.

Al capitolo secondo degli Atti (2, 42) si dice che gli Apostoli erano perseveranti nella preghiera: qui gli Apostoli pregano prima di imporre le mani e cioè vogliono rendere presente insieme a loro il Signore perché i compiti affidati ai “Sette” siano non solo un’azione umana, ma ispirata dal Signore.

L’incarico affidato ai Sette è un servizio (in greco diakonìa): Luca evita però di chiamare “diaconi” i sette; sarà Ireneo di Lione a considerare questo episodio dei “Sette” come il racconto della istituzione del diaconato, identificando i “Sette” come i primi diaconi della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II nella costituzione Lumen gentium e nei successivi documenti precisa il servizio dei diaconi nella Chiesa: diaconia della liturgia, della parola e della carità (LG, 29).

Il racconto di Luca qui riportato molto probabilmente riguarda la designazione di sette responsabili del gruppo di lingua greca della chiesa di Gerusalemme, con funzioni complementari e non concorrenziali con quelle dei Dodici.

 

Il sommario di Atti, 6, 7.

Il racconto termina evidenziando che la comunità attirava a sé un grande numero di discepoli: e la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente (6, 7). Questo giustifica la necessità di istituire nuovi incarichi: se prima era possibile che le stesse persone svolgessero più funzioni, ora si rende necessario l’intervento di persone diverse per funzioni diverse, affinché la missione della Chiesa possa radicarsi e portare frutti.

Paolo, a più riprese, tornerà su questo aspetto particolarmente sentito nelle prime comunità: tutti sono chiamati a partecipare ad un unico corpo, a partecipare con un ruolo responsabile, con compiti e funzioni diverse, ma nella unità di un solo corpo (1Cor., 12, 4-11; Ef., 4, 4-6. 11-13).

Luca racconta una crisi all’interno della comunità di Gerusalemme, un dissenso tra cristiani di lingua ebraica e cristiani di lingua greca, ma ci fa comprendere che si tratta di una crisi feconda: la Chiesa si sta costituendo nelle sue strutture ed i Dodici insieme ai discepoli trovano risposte adeguate.

Luca termina con una informazione riguardante i frutti prodotti dalla parola di Dio: anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede (6, 7). Non si tratta dei vertici della classe sacerdotale, che rimangono ostili, ma di numerosi sacerdoti, conquistati dalla Parola.

 

Seconda  lettura  (1Pt., 2, 4-9).

Cristo è la pietra viva a cui guardare per poter essere a propria volta pietre vive dell’edificio spirituale.

 

La pietra viva

L’autore della lettera invita ad accostarsi alla pietra viva (2, 4). È una formulazione inusuale, perché normalmente la pietra è usata come simbolo di una realtà morta, basti pensare alle pietre sulle tombe dei cimiteri ebraici.

L’aggettivo viva indica la Risurrezione, come la stessa prima lettera di Pietro afferma: sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che […] ci ha rigenerati mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti per una speranza viva (1Pt., 1, 3).

La pietra viva è dunque il Cristo risorto.

In quanto pietra viva, Cristo vivifica anche i cristiani, che anch’essi sono pietre vive, per costruire un edificio spirituale, cioè la “casa di Dio”, che è la comunità cristiana.

La lettera riprende l’espressione di Isaia pietra d’angolo (Is., 28, 16): la comunità cristiana ha applicato questa parola a Cristo per significare che solo in Cristo la “casa di Dio” ha un fondamento portante (1Cor., 3, 9-11).

 

La pietra d’inciampo

L’autore della lettera cita il salmo 118 (v. 22), in cui la pietra scartata dai costruttori è Israele, disprezzato dalle grandi potenze del mondo orientale, ma l’unica nazione che Dio protegge.

Nel cristianesimo delle origini la seconda parte del versetto del salmo, è divenuta la pietra d’angolo, è riferita alla glorificazione di Gesù Cristo (Mc., 12, 10; At., 4, 11), mentre la prima parte del versetto, la pietra scartata dai costruttori, è sempre applicata alla passione e morte di Gesù.

La pietra d’angolo di un edificio può essere occasione d’inciampo: secondo l’autore della lettera, l’uomo inciampa e cade quando non obbedisce alla Parola.

La fede o l’incredulità rispetto alla Parola sono pietra di salvezza o pietra di inciampo.

 

Vangelo  (Gv., 14, 1-12)

Il vangelo di oggi è una parte del lungo discorso di Gesù durante l’Ultima Cena.

Gesù ha appena detto a Pietro: In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu mi abbia rinnegato tre volte (Gv., 13, 38) e subito dopo segue il discorso sulla via che conduce al Padre che leggiamo oggi.

 

Non sia turbato il vostro cuore (14, 1)

Prima del suo arresto e degli eventi tragici che lo seguono, Gesù vuole dare coraggio ai suoi discepoli e li invita a non turbarsi e ad avere fede in Dio e in lui.

Gesù oppone il verbo turbare (taràsso) al verbo credere (pistèuo): al turbamento si sostituisce la fede.

Gesù usa due imperativi: i “comandi” di Gesù non sono pesi imposti, ma parole di vita, che creano, come all’inizio del mondo, ciò che dicono. Gesù comanda perché l’uomo possa scegliere la via della vita.

Durante l’Ultima Cena Gesù vuole inculcare nella mente e nel cuore dei discepoli che né il Padre né lui li abbandoneranno mai (Gv., 14, 27; 16, 33): Vado a prepararvi un posto. Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi (14, 3).

Ogni discepolo avrà una casa, un posto personale che Gesù va a preparare per ognuno.

Verrò di nuovo (Gv., 14, 3) allude sia alla risurrezione (Gv., 20, 19; 21, 13) come continuità di presenza viva in mezzo ai suoi, sia al riunirsi di ogni discepolo con il Signore alla morte di ciascuno.

Nella concezione giovannea, la morte è un ritorno al Padre (Gv., 8, 14. 21. 22; 13, 1. 3. 33).

L’affermazione di Gesù del luogo dove io vado conoscete la via (14, 4) sconcerta i discepoli, che non conoscono né il luogo né la via e non comprendono che cosa Gesù stia loro dicendo.

Per un pio ebreo la via era l’osservanza dei comandamenti, ma qui Gesù lascia intendere che la via di cui parla è un’altra e poco dopo dirà che è lui stesso.

 

Le perplessità di Tommaso

Tommaso apertamente manifesta le sue perplessità: Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via? (14, 5).

A Tommaso il luogo dove Gesù dice di andare, e per di più per preparare loro un posto, sembra troppo vago e troppo enigmatico perché egli, o qualcun altro, possa impegnare la sua vita, fidarsi, credere a qualcosa di così poco comprensibile.

Tommaso non capisce a quale viaggio Gesù faccia riferimento, come già anche i giudei non avevano capito dove Gesù stesse per andare (Gv., 7, 35) e lo stesso Pietro, durante l’Ultima Cena, poco prima che Gesù gli annunci il suo tradimento, non comprende dove Gesù stia per andare (Gv., 13, 17).

Dopo una lunga frequentazione, ancora durante l’Ultima Cena, i discepoli più stretti di Gesù si muovono all’interno di un orizzonte terreno e seguono il Maestro avendo capito le cose a modo loro.

Gesù non è turbato dalle parole di Tommaso e di nuovo presenta ai discepoli la meta e la via: Io sono la via, la verità e la vita (14, 6).

Io sono è il nome di Dio e Gesù dice Io sono la via ed aggiunge che egli è la via perché è la verità.

Per ogni giudeo cresciuto nell’insegnamento della sinagoga, la verità è di ordine concreto e pratico, ciò di cui ci si può fidare, su cui poter costruire la propria vita, ciò che può essere fondamento e anche direzione (via) della propria vita.

Nell’antica tradizione di Israele, il termine verità aveva un significato religioso perché esprimeva la fedeltà di Yahwè alla sua promessa e alla sua alleanza.

Quando nel giudaismo la Legge diviene l’elemento centrale della pratica religiosa, essa viene ritenuta la incarnazione della verità, una “legge di verità” da considerare la norma di vita rivelata da Dio.

L’evangelista Giovanni conosce questa tradizione, ma la rivelazione portata da Cristo, Io sono la verità, diviene l’ultima e definitiva rivelazione che porta a compimento la rivelazione provvisoria dell’Antico Testamento.

Gesù è la via verso il Padre.

I discepoli non conoscono bene né la meta né la via: avevano seguito Gesù, veduto i suoi segni, udito le sue parole, ma la loro fede nel Messia era ancora impregnata del loro modo di vedere, del loro modo di interpretare, non avevano ancora cambiato mente, non avevano ancora cambiato via.

I discepoli non avevano ancora orecchi per udire e occhi per vedere, non avevano visto nei segni di Gesù la gloria, la manifestazione di Dio.

Lo Spirito di Gesù, dopo la Risurrezione, apre loro gli occhi e apre le loro orecchie.

 

Le attese di Filippo

Filippo con la sua domanda Signore, mostraci il Padre e ci basta (14, 8), mostra di aver intuito qualcosa, ma anche lui a modo suo.

Filippo sembra essere in cerca di una manifestazione grandiosa di Dio, qualcosa che assomigli a quanto accaduto a Mosè sul monte Sinai (Es., 24, 9-11; 33, 18) o a Elia sul monte Oreb (1Re, 19, 10-14) o a Isaia nel tempio (Is., 6).

Ogni giudeo aspirava a qualche esperienza o segno straordinario, come ricorda l’apostolo Paolo: i giudei chiedono segni e i greci cercano sapienza (1Cor., 1, 22).

Filippo richiede a Gesù qualcosa di questo genere: una manifestazione stupefacente, sul monte, tra le nubi, mentre, paradossalmente, in colui che gli sta davanti c’è la presenza che tanto desidera.

Dopo la presenza di Gesù sulla terra, in quel corpo umano, Dio non si manifesta più nel tuono o nei lampi o in visioni spettacolari: ormai è nell’umanità di Cristo che Dio si manifesta, nei modi e nelle forme che Gesù ci ha manifestato.

Con il suo desiderio Filippo, come anche noi, mostra di non avere ancora conosciuto e di non avere ancora capito chi gli sta davanti: Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me? […] Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me (14, 10-11).

Filippo, come ognuno di noi, è invitato a credere che Gesù è nel Padre e che il Padre è in lui a motivo delle sue opere e dei suoi segni, perché le parole e le opere di Gesù sono le parole e le opere del Padre  (Gv., 5, 17-26. 30. 36).

La presenza di Cristo non è interrotta dalla sua partenza, anzi sarà il contrario: non solo i discepoli compiranno gli stessi segni, ma saranno resi capaci di compierne di maggiori (14, 12).

Il Signore se ne va al Padre, ma rimane presso i suoi discepoli in modo diverso e ancora più pienamente come anche ci racconta il libro degli Atti.

 

 

Alcune sottolineature

  1. Abbiate fede.

La vita del discepolo non è senza conflitti e senza difficoltà: fin dagli inizi la comunità dei credenti deve misurarsi con difficoltà legate alle diversità delle culture, ma anche con la fatica di accogliere le novità delle Antiochie di ogni epoca confrontate alle tradizioni delle Gerusalemme di ogni epoca.

Gli Atti raccontano anche questa storia.

Cosa permette ai cristiani di affrontare le difficoltà che mettono in pericolo la loro unità?

Che cosa dà loro la forza necessaria per vincere lo smarrimento di chi è minoranza?

Che cosa li sostiene nell’angoscia che si prova quando si sperimenta l’ostilità, il sospetto e perfino la persecuzione?

Ciò che sostiene i cristiani è la fiducia in Gesù, crocifisso e risorto, che ha portato a compimento la sua missione per strade inusuali e che porta a compimento la missione della sua comunità per strade inusuali e impreviste.

Non c’è altra risposta. Non c’è altra sorgente a cui attingere l’energia per non lasciarci abbattere o sorprendere da eventi imprevisti e imprevedibili all’interno e fuori della Chiesa.

Il discepolo mette la sua esistenza nelle mani di Gesù, crede alle sue promesse.

Le vicende della comunità di Gerusalemme e le parole di Gesù che ascoltiamo questa domenica diventano punto di riferimento per ogni discepolo.

 

  1. Non temete.

Non temete, non abbiate paura, non sia turbato il vostro cuore sono le parole che risuonano nel momento di ogni chiamata, di ogni vocazione. Quando, secondo il racconto delle Scritture, Dio chiama un essere umano a un compito alto e impegnativo, accompagna sempre la chiamata con i segni di una presenza e l’invito a non temere ne è il sigillo, la garanzia.

Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me (14, 1): ciò che Gesù promette ai suoi non è soltanto un posto, un luogo fisico, che protegge e rassicura. Ciò che Gesù prepara per noi è una casa, un luogo in cui si vivono delle relazioni.

Possiamo ripensare alla nostra storia personale di famiglia: ciascuno ha memoria dell’odore della propria casa, dei sapori della propria infanzia e della propria adolescenza, tutto ciò che coinvolge i sensi, le memorie visive, il tatto, il calore, le sensazioni.

Tutto ciò ha un senso perché intrecciato con la vita, con le relazioni, con i gesti ricevuti e donati.

Questa è la casa che Gesù promette: non solo un posto dove sedere o dove riposare, ma un luogo dove sentirsi amati, aspettati, dove si è riconosciuti e chiamati per nome.

Questi sono gli odori della casa di Dio.

 

  1. Via-verità-vita.

Queste tre parole sono il cuore del discorso che Gesù ci rivolge questa domenica.

Gesù è la strada, è la via: questo riguarda il nostro passato e il presente e indica il domani concreto e raggiungibile.

Con Gesù siamo per strada, in cammino, il nostro passato ci accompagna, ma il nostro cammino tende anche alla meta che Gesù ci ha indicato attraverso ciò che ha detto e ciò che ha fatto.

Con Gesù siamo veri: il tempo quaresimale ci ha chiesto di lavarci gli occhi, la luce del mattino di Pasqua ci illumina. Anche noi conserviamo le nostre cicatrici, anche noi consegniamo le nostre ferite e desideriamo lasciarci guarire e rendere nuovi.

Con Gesù siamo vivi: ci possiamo rialzare, cerchiamo di stare in piedi, di passare dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, come più volte ci hanno ricordato le letture di questo tempo dopo Pasqua.

 

  1. Tommaso: un posto e una via troppo vaghi e troppo enigmatici.

Tommaso è uno con i piedi per terra: dopo la risurrezione di Gesù vuole vedere le ferite dei chiodi e toccare la piaga del costato.

Tommaso è disorientato dall’annuncio della risurrezione fatto dalle donne, così come oggi è disorientato dall’invito ad un viaggio di cui non conosce né la destinazione (meta), né il percorso (via).

Ci riconosciamo nelle perplessità e nei dubbi di Tommaso.

Cristo dice a noi, come ha detto a Tommaso, che questi percorsi, diversi da come noi li abbiamo immaginati, inaspettatamente e misteriosamente conducono verso di lui.

Anche noi come Tommaso siamo invitati a scoprire lungo strade impreviste colui che ci accompagna e ci orienta: Io sono la via, la verità e la vita.

Gesù è il traguardo (meta) della nostra vita ma anche colui che ci conduce a questo traguardo attraverso gli avvenimenti della nostra vita quotidiana: venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto (Gv., 4, 29), dice la Samaritana ai suoi concittadini per invitarli a venire a conoscere Gesù.

Il Signore, in modi ordinari e discreti, ci chiama come ha chiamato per nome la Maddalena nel giardino del Calvario che lo stava cercando nel posto sbagliato.

 

Suggerimenti

Celebrazione

Potete partecipare alla Messa celebrata dal papa, dal vescovo diocesano o da un sacerdote in altra chiesa.

Segni

Qualcosa che evochi il servizio alle mense oppure qualcosa che evochi la casa che Gesù va a preparare per ognuno (una porta spalancata, un posto accogliente …), o inventate voi qualcosa.

Per la preghiera

Io sono la via, la verità e la vita (Gv., 14, 6).

Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Gv., 14, 6).

Dio, nostro Padre, noi ti ringraziamo:

ti sei fatto conoscere a noi in un uomo, Gesù, il Cristo, il tuo Figlio.

Egli ha abitato in mezzo a noi

e ha condiviso in tutto la nostra esistenza.

Egli non è lontano da noi,

ma vivo e risorto accompagna il cammino della sua Chiesa.

 

Signore Gesù, tu hai scelto la solidità della pietra

per farci scoprire il nostro posto

nella costruzione della Chiesa

e per mostrarci la solidarietà che esiste fra i tuoi discepoli.

 

Spirito Santo, donaci la tua luce,

perché le nostre costruzioni siano solide ed accoglienti.

Colma il nostro cuore della tua saggezza e della tua pace.

 

 

Per l’approfondimento

  1. Guardini, Il Signore, Milano-Brescia 2005. La preghiera sacerdotale.